I disen del bridge

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"I disen del bridge, mo i taroc!" dicono del bridge, ma i tarocchi! Questa frase è stata attribuita ad un bolognesissimo campione mondiale di bridge dopo un infuocato Terziglio a carte lunghe. Leggenda metropolitana? non ce n'è bisogno, il Tarocchino bolognese è gioco di tale brillantezza da farsi un baffo di ogni altro gioco di moda.

Sessantadue carte, di cui ventuno sono briscole, una è il Matto che non prende e non è preso, sedici sono figure con certo punteggio e ventiquattro sono scartine. Ce ne sarebbe già abbastanza per fare strologare i migliori cervelli ed appannare i riflessi più rapidi. Ma i bolognesi di trecentocinquanta anni fa si annoiavano lo stesso, ed allora hanno dato un colpo di bacchetta , facendo cambiare il valore delle figure, dei tarocchi, dei trionfi, dei moretti e degli assi ad ogni mano, creando il Tarocchino: da allora si gioca a soggetto.

Stasera mi hanno sottratto dalla girandola del mio tavolino di Ottocento per scrivervi come e qualmente la bellezza speculativa del Tarocchino bolognese discenda dai magnanimi lombi dei tarocchi bolognesi, e sia stata costruita in duecento anni di invenzioni e varianti.

Lo confesso, l'armonia non è solo nella dinamica del gioco. Se dopo una partita a Tarocchino impugnamo le carte francesi, sentiamo che in questo mazzo razionale, pieno di K e di Q e di J, manca qualcosa: la bellezza. I tarocchi sono d'autore, bada bene, pinti a mano da uno di quelli che miniavano i libri come la straordinaria Bibbia degli Estensi. Sono tanto belli, che cresce la calca di esoteristi, di professori di logica e semiotica, di veggenti, di poeti, di sensitivi, di studiosi di storia dell'arte, di psicanalisti, di cartomanti, insomma della crema angosciata e pensosa dell'umanità, americana e cinese, tedesca e turca, una moltitudine che si affolla intorno al nostro tavolino a discettare dei trionfi, a compulsarne simbologie, a discernere stilemi, a scavarne la storia venerabile, a percepirne penombre archetipe, a salmodiare divinazioni tra zolfo e incenso. Noi giocatori, poveri begattofagi e regicidi assorti nella giostra delle carte battute con l'insulto, siamo fastidiosamente distratti dal brusio ammirato del mondo per le carte che abbiamo in mano. E diciamo: ma avete mai giocato a Terziglio?

Gli antropologi studiano i cosiddetti selvaggi, gli etologi studiano gli animali, persino gli pschiatri ascoltano i pazienti, ma di questa assemblea grave e seriosa che si affolla attorno ai tarocchi nessuno studia il gioco!1

Noi serissimi begattofagi siamo da meno di una tribù di Sulawesi, con tutto il rispetto ci mancherebbe altro, ma voglio vederne una che caccia un re lungo che ha fatto la passata. Perché si studiano con venerazione le danze degli Ottentotti e non i comportamenti dell'Homo Bononiensis al tavolino? mah, così va il mondo, cari miei, e se noi giocatori vogliamo sopravvivere dovremo farcela da soli, ché, tutti questi intellettuali che dicono di amare i tarocchi, si contentano della bellezza statica dell'icona, senza vedere la dinamica ed il diletto del gioco di cui quell'icona è ancella.

Petrarca in un momento libero dalla sua Laura e da tutto quel suo latinorum, scrisse nel 1366 un De remediis utriusque fortunae, dove dissertò di vari giochi, ma le carte proprio non ci sono. Povero Petrarca, è nato troppo presto. Avesse potuto dividere il nostro tavolino, invece di Laura avrebbe scritto del Begatto trepidante carpito dal volo di Amore.